Walter Fuochi, La
Repubblica, 4 Agosto 2003
E
poi la gente, perché è la gente che fa la storia
Quando si tratta di scegliere e di andare
Te la ritrovi tutta con gli occhi aperti
che sanno benissimo cosa fare
Quelli che hanno letto un milione di libri e quelli che non sanno nemmeno
parlare
Ed è per questo che la storia dà i brividi
Perché nessuno la può cambiare.
Francesco De Gregari, “La storia”
Ero
piccolissimo
Ero piccolissimo, non so quanti anni avevo. La televisione era accesa nel
salotto della nostra vecchia casa, le immagini arrivavano sfuocate, ma i colori
erano vivaci, tanto giallo e tanto blu. I miei genitori guardavano una partita
di uno sport che non mi piaceva. Troppo diverso dall'adorato calcio, a cui
giocavo tutti i pomeriggi nel giardino del palazzo dove abitavo. Volevo fare il
portiere. Dicono che i portieri siano tutti un po' pazzi e allora forse avrei
potuto esserlo anch'io.
I miei genitori guardavano una partita di basket. Non so che partita fosse ma
sembravano molto presi dal gioco, sembrava una partita importante. Forse era
Strasburgo 1981, quando perdemmo all'ultimo secondo la nostra prima finale di
Coppa dei Campioni contro i fortissimi israeliani del Maccabi Tel Aviv, a causa
di un canestro annullato a Marco Bonamico per un'infrazione di passi risultata
poi inesistente.
Ma di tutto questo allora non sapevo e non capivo nulla. Forse era Strasburgo
1981, ma non lo saprò mai perché se lo chiedessi ai miei genitori sicuramente
di quell'episodio non si ricorderebbero più niente.
Fatto sta che io non volevo assolutamente saperne di vedere una partita di
basket, neanche la partita del secolo, neanche se i miei genitori ci tenevano
così tanto, loro che per anni erano andati a vedere la Virtus al Madison di
Piazza Azzarita, in due posti in gradinata numerata. Non ne volevo sapere di
vedere quel brutto sport. Volevo giocare, o volevo guardare un altro programma.
Così mi inventai uno di quei ricatti di fronte ai quali i miei genitori non
potevano che cedere. Esasperato da quel pallone arancione che si muoveva
inspiegabilmente da una parte all'altra del campo e ogni tanto entrava dentro a
un anello di metallo con attaccata una retina di corda, minacciai puntando il
dito.
“Se non cambiate canale tiferò contro la Virtus per tutta la partita!”
Non so se fossero allibiti o divertiti da quella minaccia, o semplicemente così
pieni d'amore per il loro figlio da rinunciare a quella che forse per loro era
la partita del secolo, ma mi accontentarono.
Prima
partita
Alla scuola elementare che frequentavo regalavano
dei biglietti per vedere la Fortitudo, che allora giocava in serie A-2. Mio
padre portò me e il mio amico Alessandro a una partita contro Reggio Calabria.
George Bucci per la Fortitudo raggiunse il traguardo di non so quante migliaia
di punti segnati nel campionato italiano e tutti lo applaudimmo. Dan Caldwell
per Reggio Calabria faceva canestro da ogni posizione.
Ma la cosa che più mi è rimasta impressa di quella partita è che poco prima
dell'inizio alcuni tifosi vennero ad attaccare uno striscione lungo la balaustra
dove eravamo seduti noi. Con quello striscione davanti io e il mio amico non
avremmo potuto vedere bene il gioco. Mio padre protestò ma i tifosi non ne
vollero sapere e furono anche abbastanza scortesi.
Mi mise tristezza, ma per un bel po' di tempo in camera mia restò attaccato un
gagliardetto della Fortitudo.
Alla
televisione
Sull'emittente locale trasmettevano le partite
della Virtus e della Fortitudo in differita la domenica sera. Cominciai a
guardarle con mio padre, che mi spiegava volta per volta le regole del gioco. La
mia mente, che a quei tempi era avida di numeri, mi portò a tenere dei
resoconti statistici precisissimi della partita. Registravo punteggi parziali,
marcatori, rimbalzi, e tutto quello che riuscivo a individuare.
In quegli anni la Virtus non era particolarmente forte, ma cominciavo a sentirla
come la mia squadra.
Ricordo una rocambolesca partita contro Pesaro, in cui esordiva il funambolico
Darren Daye, che faceva il cambio di Larry Bird ai Boston Celtics. L'avevamo già
persa nei tempi regolamentari, e non si sa come riuscimmo ad arrivare ai
supplementari. L'avevamo ripersa dopo il primo supplementare, e riuscimmo di
nuovo a pareggiare, per poi vincere nel secondo supplementare. Credo di avere
rivisto quella partita almeno cinque volte.
In quegli anni nella Virtus giocò il mitico Sugar Ray Richardson, il giocatore
più spettacolare che si sia mai visto in Italia. Durante una partita fece un
numero clamoroso, il telecronista andò in visibilio e mio padre disse che non
si ricordava di aver mai visto niente del genere. Pare che Richardson avesse
indovinato una traiettoria a palombella impossibile.
Ma purtroppo proprio in quel momento mi ero distratto e non stavo guardando lo
schermo e siccome non c'era il replay non vidi mai il numero più sensazionale
di Sugar Ray Richardson. Ma come spesso mi capita è proprio delle cose che non
ho visto che conservo il ricordo più vivo. Immagino quella palla volare dentro
l’anello come un gabbiano leggero che si posa su uno scoglio.
Livorno
Un anno arrivarono in finale la titolatissima
Milano e la sorpresa Livorno. Nella gara decisiva Livorno era riuscita a segnare
con Forti il canestro decisivo all'ultimo secondo. I giocatori stavano già
festeggiando, ma gli arbitri annullarono il canestro dicendo che era arrivato
fuori tempo massimo. Così a fare festa furono quelli di Milano mentre gli altri
tornarono sconsolati nello spogliatoio.
Tifavo per Livorno e mi dispiacque, ma soprattutto capii quanto il basket possa
essere uno sport crudele.
Alla
radio
Facevo le scuole medie e la Virtus era giunta ai
quarti di finale dell'Eurolega, la nuova prestigiosa manifestazione che aveva
sostituito la Coppa dei Campioni. Affrontavamo il Partizan Belgrado, dovevamo
vincere due partite su tre e la gara decisiva si sarebbe giocata in casa nostra.
Il Partizan aveva vinto la prima partita a Belgrado. Nella seconda partita
faticammo tremendamente ma riuscimmo a vincere, garantendoci così la possibilità
di giocare la gara decisiva sempre a Bologna.
La terza partita iniziò benissimo, andammo subito sopra nel punteggio e tutto
sembrava filare liscio. Poi verso la metà del primo tempo un giovane
promettente di nome Predrag Danilovic, lanciato in contropiede, piazzò una
schiacciata così violenta da distruggere il tabellone. Ci misero più di
mezz'ora a ripararlo, e in quella mezz'ora i ragazzi del Partizan si riscossero
dal torpore mentre i nostri persero la brillantezza iniziale.
Perdemmo la partita, e il Partizan andò a vincere la coppa con un tiro
incredibile di Djordjevic da metà campo.
Arriva
Sasha
Mi ricordo che il giorno dopo la partita persa col
Partizan passai tutta l'ora di religione a disegnare la scena di Danilovic che
sfasciava il canestro. Mi era sembrata una mossa molto furba. Evidentemente la
pensava così anche il nostro presidente, che lo portò a Bologna.
In Eurolega arrivammo a giocare contro il mitico Real Madrid del grande Arvydas
Sabonis. Non avevamo chance e infatti perdemmo nettamente entrambe le partite.
Dopo avere sentito per radio la cronaca della sconfitta in casa telefonai a un
amico con cui condividevo la passione per il basket. Eravamo entrambi infuriati,
specialmente con Sasha che non era stato all'altezza. Mentre parlavo al telefono
mi venne da farmi la barba. Sarà stata la quarta o la quinta volta che lo
facevo nella mia vita, senza schiuma da barba e con un rasoio usa e getta. Mi
tagliai non so quante volte e il giorno dopo sembravo uno di quei monaci che si
vedono nel film Il nome della rosa.
Comunque non seguii molto il basket quell'anno. Ricordo un servizio televisivo
in cui si vedeva Danilovic fare canestro da metà campo allo scadere di un
tempo. Ricordo una finale di Coppa Italia persa allo scadere contro Treviso,
dove giocava il grande Toni Kukoc. E ricordo le finali per lo scudetto vinte
sempre contro Treviso, con la gente che fece invasione di campo alla fine della
gara decisiva.
Organizzarono un'amichevole contro Reggio Calabria per festeggiare la vittoria
del campionato. Ci andai con degli amici, più che altro perché nel gruppo
c’era una ragazza che mi piaceva. Così avevo visto la mia prima partita della
Virtus, e la mia seconda partita in assoluto. Solo adesso mi rendo conto che
anche questa volta l'avversario era Reggio Calabria, come alla mia prima partita
della Fortitudo.
Il
regalo
Stavamo festeggiando il mio compleanno in un
ristorante in montagna e mio padre estrasse dalla tasca il mio regalo. Una
tessera di abbonamento della Virtus. Introvabile, a quei tempi in cui c'era
gente che pagava fior di quattrini per avere non l'abbonamento alla stagione
successiva, ma il diritto di succedere a un vecchio abbonato.ù
Così ero diventato un abbonato Virtus. Quell'anno andrai in
vacanza con i miei genitori a Londra. Sull'aereo di ritorno leggemmo sul
giornale che era rimasto solo un giorno per rinnovare gli abbonamenti dell'anno
precedente. Il giorno dopo andrai in banca e mi dissero che per farmi
l'abbonamento dovevano avere l'autorizzazione del vecchio proprietario. Si
chiamava Gianni Scandellari ed era un conoscente dei miei genitori. Corsi alla
velocità della luce da mio padre, e riuscimmo nel miracolo di contattare Gianni
Scandellari e di farlo venire subito in banca.
Così ero diventato un abbonato Virtus, questa volta davvero.
Primo
anno
Il Palazzo era fantastico, Sasha era fantastico,
la squadra era fantastica, mi sembrava di essere in un sogno. Il campionato
italiano fu equilibratissimo, per l'Eurolega non eravamo ancora pronti.
Il giorno di Capodanno giocavamo a Trieste contro l'avversario più temibile per
il titolo. Sasha andò fuori di testa e si fece cacciare all'inizio del secondo
tempo. Giocammo comunque una partita splendida e vincevamo di tre a due secondi
dalla fine. Nando Gentile prende la palla e da metà campo infila il classico
tiro della disperazione. Supplementari. Io dovevo andare a un concerto di musica
classica, ero già vestito di tutto punto e non potevo rimandare. Ascoltai in
macchina la cronaca del supplementare, che perdemmo come è normale che succeda
quando ti portano via una vittoria che ti senti già in tasca. Mi tornò in
mente la finale tra Milano e Livorno.
Le finali di Coppa Italia si sarebbero giocate nel nuovo palazzo dello sport di
Casalecchio, una struttura che a quei tempi sembrava avveniristica. Feci una
fila interminabile e massacrante per comprare i biglietti per me e per i miei
amici, ma alla fine ce la feci. Giocavamo in semifinale contro Verona. Prima
della partita feci un'altra fila massacrante per comprare una maglietta da gioco
del capitano Roberto Brunamonti. In verità volevo comprare quella di Sasha, ma
non ce n’erano più. La partita con Verona fu molto equilibrata ma perdemmo
per un errore ai tiri liberi nel finale. Tornai a casa distrutto, non sapevo
fare altro che ripetere: “è una grande amarezza”. Per consolarci mia madre
preparò fragole con la panna per tutti.
In campionato arrivammo in finale con Pesaro, dove giocava l’astro nascente
Carlton Myers. Fu una serie strana e molto combattuta, due giocatori si
azzuffarono negli spogliatoi e furono squalificati. La gara decisiva era in casa
nostra. Giocammo bene ma non benissimo, entrambe le squadre erano molto stanche,
ma la Virtus aveva qualcosa in più. Verso la fine della partita ci fu un guasto
all'impianto di amplificazione, per cui non si sentiva più lo speaker che
annunciava i canestri e le infrazioni. E soprattutto non si sentì lo speaker
annunciare alla fine della partita che la Virtus era campione d'Italia. Ero
felice, ma avrei voluto sentire quella frase. I riti vanno consumati.
Alla fine della partita incontrai la ragazza che mi piaceva. Era tutta bagnata
di spumante e mi abbracciò forte. Andammo tutti in Piazza Maggiore a
festeggiare.
Orecchioni
L’anno successivo eravamo appena tornati da una
gita scolastica in Umbria e il giorno dopo c'era un derby molto atteso.
Il mio primo derby dal vivo lo avevamo vinto di 41 punti. Ma piano piano la
Fortitudo stava cominciando a rinforzarsi e a diventare temibile. Quell'anno
avevano Vincenzino Esposito e Sasha Djordjevic, quello del tiro da metà campo
della finale di Eurolega. Il pomeriggio di quel giorno cominciai a sentire male
alle orecchie. Io e mia madre sapevamo benissimo che erano gli orecchioni e che
avrei dovuto stare a casa dalla partita, ma io non consideravo neanche questa
ipotesi e lei mi voleva troppo bene per impormi di fare quello che si doveva
fare. Venne a visitarmi il medico, ma anche lui mi voleva troppo bene per
impedirmi di fare quello che si doveva fare.
Così mi bardai con una doppia sciarpa e mi feci accompagnare al Palazzo da mio
padre. Non stavo per niente bene, ma quando entrai lì dentro tutto il male svanì.
Fu una partita grandiosa, che per fortuna ho registrato per i momenti tristi.
Tornai a casa e la volli subito rivedere, poi andai a dormire con addosso un
grande senso di soddisfazione per non essermela persa.
Il giorno dopo avevo 39 di febbre e orecchioni galoppanti. Mi viene anche uno
strano virus allo stomaco che non mi permetteva di ingerire né liquidi né
solidi. Una domenica di sole ero a letto ad ascoltare la radiocronaca di una
partita che vincemmo facilmente a Reggio Emilia. Non sopportavo l'idea di
starmene chiuso in casa quando fuori tutti i miei amici stavano giocando a
basket. Mi sentivo molto triste e pensavo che avrei voluto essere un giovane
giocatore di un college americano.
Gli
americani
Quell'anno giocammo un'amichevole contro la
squadra NBA degli Charlotte Hornets. Era un evento quasi senza precedenti in
Italia. Sasha fu fantastico e fece capire a tutti che era pronto per andare a
giocare in America. Il giorno prima della partita avevano allestito degli stand
con gli sponsor in cui sarebbero stati presenti anche i giocatori. Io ci andai e
presi gli autografi di tutti. Mi sembrava impossibile vederli così da vicino.
Brunamonti mi diede un buffetto sulla guancia.
Ciao
Sasha
Sasha ci salutò con il terzo scudetto in tre
anni, di nuovo in finale contro Treviso. Nella Virtus giocava come centro Joe
Binion, esperto ma un po' goffo e non abituato a giocare a certi livelli, per
cui tutto l'anno era stato dileggiato e anche a volte insultato. Nella prima
partita di finale gli passarono la palla all'altezza della linea del tiro
libero. Lui era in movimento e prese lo slancio per andare a inchiodare una
schiacciata pazzesca. Credo che non avesse mai schiacciato in tutto l'anno, non
era tanto alto e neanche molto atletico. Dalla posizione in cui ero lo potevo
guardare in faccia, quasi negli occhi. Non ho mai dimenticato quello sguardo
spiritato.
Nella seconda partita di finale a Treviso giocammo benissimo ma si fece male
Paolo Moretti, uno dei giocatori che mi hanno divertito di più in questi anni
di basket. Da quell'incidente non è mai più tornato a giocare a quei livelli.
Ancora adesso se ci penso mi dispiace. Gli cedette la gamba di schianto e franò
a terra come un pulcino.
Sasha ci salutò con 41 punti nella terza partita. Quando la sirena segnò la
fine dell'incontro fui tra i primi a entrare in campo. Sasha stava in piedi al
centro, faceva segno di tre con entrambe le mani, tre scudetti vinti in tre anni
a Bologna. Riuscii ad afferrare una di quelle mani, a stringerla. Mi sembrava di
avere toccato un totem.
Ma da quel momento eravamo tutti orfani di Sasha.
Orfani
di Sasha
I due anni successivi furono piuttosto
inconcludenti. Arrivarono dei buoni giocatori ma non riuscimmo a ripeterci sui
livelli degli anni passati. Il primo anno senza Sasha perdemmo in semifinale di
campionato contro Milano e in finale arrivò la Fortitudo. Feci l'abbonamento
per vedere le partite e fu veramente un grande spettacolo. La Fortitudo era
forse più forte, ma Milano era più furba. Vinsero di rapina la terza partita a
Bologna e poi la quarta decisiva a Milano. Dopo la sconfitta di Bologna finii in
mezzo a dei tafferugli tra i tifosi. I poliziotti lanciarono dei lacrimogeni e
io feci appena in tempo a slegare la mia bicicletta e a scappare a casa.
L'anno successivo le cose non andarono meglio. Riuscimmo comunque a vincere una
Coppa Italia, ma non andai neanche alla partita.
Eravamo abituati troppo bene per accontentarci di stare tra i primi, Volevamo
vincere, tutto, sempre.
Torna
Sasha
Cominciano a girare voci che Sasha vorrebbe
tornare a Bologna. Il vecchio capitano Roberto Brunamonti, passato alla
dirigenza, gliene sta parlando. Raccontano che Sasha sia venuto a Bologna e che
i due vecchi compagni di squadra siano andati ad allenarsi assieme, e che
giocando con Sasha Brunamonti lo abbia convinto a tornare da noi.
Non so se è una storia vera o un’invenzione giornalistica. So che mi sembra
una di quelle storie che ti fanno sembrare i campioni strapagati uguali ai
ragazzi con cui giochi al campetto alle sette di sera. Due amici che si
ritrovano e fanno due tiri insieme.
Assieme a Sasha arrivano tanti altri campioni e la squadra è veramente
fortissima, allenata da Ettore Messina che dopo il primo scudetto e la nazionale
è tornato a casa. Anche la Fortitudo è fortissima, la più forte della sua
storia. Ci incontriamo per la prima volta all’inizio dell’anno, nella finale
di Coppa Italia. Ci battono piuttosto agevolmente e conquistano il primo trofeo
della loro storia, così non possiamo più cantare “Non avete mai vinto un
cazzo!” contro di loro. Torno a casa sconsolatissimo in macchina e ascolto i
commenti del dopo partita. Inaspettatamente Sasha si presenta in conferenza
stampa e dice che questa squadra non perderà un'altra finale. Stringo il pugno
e sento il sangue che mi si scalda di nuovo nelle vene. Ecco di che cosa ero
rimasto orfano.
Barcellona
Arriviamo per la prima volta alle Final four di
Eurolega. Quattro squadre che si affrontano nel giro di tre giorni nella stessa
città, quattro tifoserie che si dividono un solo palazzo dello sport: Virtus,
Partizan, AEK Atene e Treviso, al Palau San Jordi di Barcellona.
Non potrei non andarci. Alla partenza mi sembra di imbarcarmi in un viaggio
spirituale, mi frigge il sangue nelle vene. Nella semifinale facciamo a pezzi il
Partizan e in finale giochiamo contro Atene. La partita è piuttosto brutta, ma
per me che sono lì dentro in quella bolgia con 6000 nostri tifosi è la partita
più bella che ci possa essere. Ci sentiamo tutti sul tetto d'Europa.
Non possiamo festeggiare a Barcellona perché il nostro aereo riparte subito
dopo la partita, non possiamo festeggiare a Bologna perché quando arriviamo
tutti i tifosi sono lì all'aeroporto ad aspettare i giocatori. Mentre esco
dagli imbarchi mi sembra quasi che stiamo aspettando me.
Il giorno dopo vado ai giardini con la mia ragazza. Mentre la abbraccio
felicissimo di rivederla e le racconto le sensazioni che ho provato mi rendo
conto che forse sto vivendo i momenti più felici della mia vita.
Quattro
Forse questa volta è finita davvero. Le abbiamo
tentate tutte, ma queste finali di campionato italiano contro la Fortitudo
sembriamo destinati a perderle. Nelle partite in casa nostra avevamo una banda
musicale di una ventina di elementi che negli intervalli suonava canzoni e
quando attaccavano gli avversari faceva dei rumori fastidiosi per disturbarli. I
tifosi della Fortitudo erano così sicuri di vincere che alla quarta partita
avevano portato delle campane dentro al palazzo dello sport, ma siamo riusciti a
compiere una rimonta fenomenale alla fine della quale ho cacciato un urlo dalla
finestra talmente forte che solo per quello sono rimasto senza voce.
Sono andato alla partita decisiva con la maglia da gioco di capitan Brunamonti
che avevo comprato tanti anni prima. Negli ultimi minuti, quando la Virtus
sembra irrimediabilmente destinata a soccombere, me la tolgo e la stringo al
petto come un amuleto.
Quando Sasha segna da tre punti, subisce fallo, segna il tiro libero aggiuntivo
e ci riporta in parità quasi allo scadere mi sembra che sia avvenuto davvero un
miracolo.
Torno a casa con il mio motorino scassato, suonando il clacson e agitando la
sciarpa legata al polso. Vicino a casa mi si affianca una macchina di tifosi
della Fortitudo. Mi insultano e mi corrono dietro per togliermi la sciarpa.
Passo col rosso a un semaforo e li semino, ma non credo che avessero veramente
voglia di darmi contro.
Alla sera è un delirio. Torno a casa a un orario indecente e di nuovo ho la
sensazione che sto vivendo dei giorni magici.
Sasha
non sta bene
Sasha ha le caviglie a pezzi. Le finali scudetto
le ha giocate in punta di piedi, è diventato molto fragile dopo tanti anni in
cui non si è mai risparmiato anche quando stava male perché, parole sue, in
campo bisogna morire. Così tutte le volte che zoppica o fa fatica in campo o si
legge sul giornale che non sta bene non sto bene neanche io.
Monaco,
Monaco, ce ne andiamo ce ne andiamo a Monaco
L'anno successivo la squadra è sempre fortissima.
Vinciamo di nuovo la Coppa Italia contro Varese con un'altra rimonta
straordinaria e un canestro decisivo di Antoine Rigaudeau. Arriviamo un po'
faticosamente alle Final four di Eurolega che questa volta si giocano a Monaco
di Baviera. Ovviamente non posso mancare.
La semifinale è contro la Fortitudo, che è al suo esordio alle Final four e
che quest'anno ci ha battuti cinque volte su cinque. Ovviamente Sasha tira fuori
una gran partita e gli altri lo seguono. Mi sento di nuovo in cima a una
montagna, ma mi buttano giù il giorno dopo i lituani dello Zalgiris Kaunas, che
ci battono in finale nonostante la nostra solita eroica rimonta. Mi ero quasi
dimenticato che cos'è la sconfitta.
Losanna
L’anno successivo non partecipiamo all’Eurolega
ma a una competizione meno importante chiamata Saporta Cup. In semifinale
dobbiamo rimontare tredici punti a una squadra lituana. Per tutta la partita non
riusciamo a combinare niente di buono, poi nel finale qualcosa si risveglia e
arriviamo alla finale di Losanna per il rotto della cuffia.
In finale giochiamo contro l’AEK Atene, che avevamo battuto due anni prima a
Barcellona. Come al solito dipendiamo molto da Sasha, che all'inizio sembra in
gran forma. Dopo cinque minuti del primo tempo gioca uno contro uno con
l'avversario, fa due finte spettacolari e va a segnare un canestro bellissimo
mentre io urlo: “se lo mangia, SE LO MANGIA!!!” Poi però Sasha si sgonfia e
con lui un po' tutti. Andiamo all'intervallo in netto svantaggio e i tifosi
greci al bar ci guardano e dicono “Barcellona” con aria irridente. Con la
solita rimonta disperata arriviamo quasi a pareggiare, ma buttiamo via un
pallone fondamentale e torniamo a casa un'altra volta con le pive nel sacco.
Un mese dopo la Fortitudo vince il suo primo scudetto. Meno male che sto per
partire per gli Stati Uniti.
Io
me ne vado, Sasha pure
Ad agosto parto per un anno di studio in
California. Una settimana dopo il mio arrivo a San Diego mi telefona mio padre
dicendomi che Sasha si è ritirato. Mi precipito su Internet a raccogliere tutte
le informazioni, immagini, sensazioni, emozioni che ci posso trovare. Guardo un
filmato di pessima qualità in cui riesco almeno a sentire le parole di Sasha e
soprattutto il tono della sua voce. E mi si stringe un groppo in gola
fortissimo. Dovevo essere lì. DOVEVO ESSERE LÌ.
Sasha ha detto esattamente le parole che avevo immaginato che dicesse. Era tutta
estate che ci pensavo: secondo me faceva bene a ritirarsi e facevamo bene noi a
smettere di sognare che tornasse a stare bene come prima. Quando ha detto che
voleva smettere perché gli veniva male solo a guardare la borsa con le scarpe
da basket è stato come se avessi sentito anch'io quel male, perché quel male
in realtà lo sentivamo tutti noi, che gli volevamo bene e volevamo che stesse
bene. Mi ricordo una partita insignificante contro Reggio Emilia in cui per tre
quarti della gara Sasha sembrava irriconoscibile. Poi cominciò a ingranare e
segnò tre o quattro canestri di fila e tutti ci sentimmo sollevati in vista
delle gare successive, quando in un'azione posò male il piede, si storse la
solita caviglia e scappò direttamente nello spogliatoio a farsi medicare. Ci
alzammo tutti in piedi con una smorfia di dolore come se ci fossimo fatti male
anche noi.
Nel filmato si sentiva anche Sasha che ringraziava Brunamonti e si vedeva
Brunamonti piangere. Eccoli di nuovo, i due amici che si ritrovano al campetto.
Lacrime.
Trionfi
Ovviamente il mio anno all'estero coincide con
l'anno più trionfale della storia della Virtus. Lo seguo a tratti e un po'
distrattamente su Internet.
A Natale torno a casa e ho la fortuna di incrociare il primo derby della
stagione. La Fortitudo sembra più forte, la Virtus è tutta da scoprire.
Vinciamo di 37, una partita semplicemente esaltante. Non faccio in tempo a
esultare per un canestro segnato che ne arriva un altro. Torno a sentire aria di
casa.
Dalla California ascolto in differita la telecronaca di un derby in cui
rimontiamo una quindicina di punti nell'ultimo quarto, ma riesco solo a
immaginare l'emozione che avrei potuto provare se fossi stato lì. Un giorno
torno a casa da lezione e mi ricordo che si è giocata la gara decisiva delle
finali di Eurolega contro gli spagnoli del Vitoria. Quando apro il sito e leggo
che abbiamo vinto mi metto a saltare per la stanza come un canguro rimbecillito
per almeno dieci minuti.
Casalecchio
– The end
L'anno successivo è quello dell’11 marzo, del
caso Messina. Me lo dicono per telefono, non ci credo, mi arrabbio, ne parlo con
chiunque mi capiti a tiro, anche con chi non si interessa di basket, vado come
tanti altri a invadere il campo nella partita successiva all'esonero. Sono
faccia a faccia con i giocatori e per la prima volta non è in un momento di
festa. Messina torna e mi illudo che il nostro gesto sia servito a qualcosa, che
a volte la folla sia più pensante e importante degli oligarchi.
Forse poteva essere così.
Il 5 maggio Casalecchio è tutta nostra, un muro di folla che ti mette i
brividi. Vedo l’ennesima finale di Eurolega schiacciato contro una balaustra,
vedo un sogno crescere, arrivare vicino a materializzarsi e poi rapidamente
svanire. Festeggia Atene, cominciano i tre mesi più difficili della mia vita.
Lì finisce tutto, l'ho pensato e capito da quel momento. Lo aveva capito anche
un giornalista, che il giorno dopo lo scrisse, tra le righe. Gli mandai un
e-mail accusandolo di catastrofismo, ma in realtà ero così d'accordo con lui
che per convincermi che mi sbagliavo ero costretto a cercare di convincere lui
che si sbagliava.
A
volte finisce anche quello che nessuno crede che possa finire.
Stavo scrivendo con un programma di dettatura, ma ho dovuto disattivarlo perché
non riesco più a parlare. Non riesco a sentire la mia voce che dice certe cose
senza che mi si stringa un groppo in gola.
Amo il basket per tanti motivi, ma uno di questi è che non è mai finita fino
alla sirena, che dopo ogni canestro subito hai di nuovo in mano la palla per
tentare di segnarne uno a tua volta, e qualche volta riesci anche a segnare da
tre punti dalla metà campo o a segnare da tre punti e subire fallo.
Amo la Virtus per tanti motivi, ma uno di questi è che da quando vado a vederla
è una squadra che non molla mai, che cerca sempre la rimonta anche in
situazioni disperate, e tante volte riesce a trovarla, anche con tiri da quattro
punti, anche quando tutti gli altri avrebbero mollato.
Forse per questo è ancora più difficile accettare che non ci sia più un altro pallone da giocare, un’altra rimonta impossibile da tentare.
Una
volta scrissi su Sasha: “Quando muoiono i miti, muore qualcosa anche dentro di
noi”.
Vale lo stesso, a maggior ragione, oggi per la Virtus. Che non morirà
definitivamente, credo, ma che è morta dentro di me, già da tempo. Oggi si è
solo celebrato un funerale che avevo sperato di poter rimandare ancora per un
po’.
Quello
che ho scritto dalle 2 alle 5 di stanotte, supportato dai caffè e dalle
emozioni che riaffiorano e che non mi lasciavano dormire, è il condensato di
tanti anni di passioni, che mi rimarranno dentro come alcuni dei fiori più
belli della mia giovinezza.
I
tifosi di Varese avevano uno striscione che diceva: MEMENTO AUDERE SEMPER.
Questo è stato per me il basket, questa è stata per me la Virtus.
CV
Copyright 2003 Cristian Vaccari
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Ultimo Aggiornamento: 5 Agosto 2003