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La ricetta dell'uomo di marketing per riportare pubblico alla Virtus

Premessa: cosa c'entra in questo sito un articolo che parla di pallacanestro? C'entra per due motivi.

Il primo è che l'autore di questo sito è un grande appassionato di pallacanestro nonché un deluso e affranto tifoso della squadra in questione (la Virtus Bologna).

Il secondo è che i suggerimenti che l'esperto di marketing dà per risolvere il problema del crollo del pubblico della Virtus, cioè puntare su utenti più o meno occasionali piuttosto che sulla ricostruzione del rapporto con i tifosi delusi da una stagione orribile e da una dirigenza irresponsabile, dice secondo me molto sulla dissoluzione di legami e appartenenze che affligge l'uomo in questa fase della modernità, e che sociologi come Zygmunt Bauman, Anthony Giddens e Ulrich Beck documentano nei loro studi.

L'idea è che non siamo più in grado di stabilire e mantenere legami di appartenenza forti. I gruppi e le strutture organizzate (istituzioni) che garantivano le vecchie appartenenze (partiti, sindacati, chiese) sono protagonisti di un declino apparentemente irreversibile. Ma siamo anche noi stessi a non volere più legarci troppo strettamente e a lungo termine con una persona, un gruppo o un'idea, con gli oneri e le responsabilità che questo comporta.

In questo contesto il tanto vituperato marketing cerca di fare il suo mestiere, che è quello di aiutare a costruire e vendere un prodotto che risponda ai bisogni degli acquirenti. Se in passato molti comportamenti di acquisto erano in una certa misura legati alle appartenenze che oggi sono scomparse, occorre scoprire e sfruttare legami possibili più brevi, superficiali, intercambiabili. Costruire “community”, laddove le comunità originarie sono quasi scomparse.

Trovo inoltre interessante il fatto che questo articolo indichi che lo sport, da molti studiosi indicato come uno degli ultimi collanti forti della nostra società, non faccia invece eccezione, o almeno non sia destinato a fare eccezione se anche nello sport la nostra società sarà attraversata da quelle trasformazioni, avvenute o iniziate negli Stati Uniti con almeno un decennio di anticipo e genericamente indicate col nome di “modernizzazione”, avvenute nel mercato sportivo statunitense a cui si fa qui cenno.

Il che non equivale certo a dire che la ricetta proposta dall'esperto di marketing mi convinca. Forse fra una decina di anni anche il vero tifoso (così come oggi il militante di partito e sindacale, il giovane chiamato dalla vocazione religiosa, il marito e la moglie fedeli per tutta la vita) diventerà una figura relativamente marginale e minoritaria. Ma finché i tifosi ci sono, e sono ancora disposti a “impegnarsi” per la loro squadra al punto di sentire il loro cuore palpitare, sarebbe meglio ricorrere a una strategia molto più semplice della segmentazione di mercato e della personalizzazione dell’offerta: rispettare il pubblico e il suo anacronistico senso di appartenenza a una bandiera. Come, in fondo, mi pare che emerga dalle domande dell'intervistatore, non a caso una persona che questo sport lo ama prima di esserne scrupoloso cronista.

Segue articolo.

Dopo il collasso di pubblico, da 5800 a 3500, un esperto Nba propone la sua formula per il rilancio
“Virtus, te la do io la gente”
La ricetta di Mister Glickmann: “Non più solo abbonamenti”

Di Walter Fuochi

Dice che non è più tempo di metter fuori il cartello “Abbonamenti”, tirar su la serranda e aspettare che lo spettabile pubblico corra a far la fila. No, bisogna andarselo a cercare, accarezzarlo, meritarlo. Dice che il suo sistema è matematica in salsa di marketing: pifferi e formule magiche semmai sono roba nostra. Ma sì, ascoltiamolo questo yankee simpatico e pragmatico, il Marshall Glickmann che sostiene d'aver la ricetta per riempire i palazzetti. Appena vista la platea virtussina quasi dimezzatasi da 5800 3500, non sarà tempo buttato via.

“Ho lavorato per Portland nella Nba [lega professionistica americana], – si presenta lui – da pochi mesi sono consulente dell’Uleb [la lega dei club europei, ndr] per portare più pubblico alle partite. Io dico che si può, la Nba ha già dato risultati clamorosi e pure in Spagna ci si comincia a muovere. Intanto, ribaltiamo un concetto: siamo noi che dobbiamo andare dalla gente, non la gente da noi.”

Non la vedo con la valigetta delle spazzole, a suonare porta a porta.
“Li deve vedere, invece, quattro o cinque impiegati di una società di basket che fanno quello e solo quello. Non vanno a suonare campanelli, ma usano il telefono, prendono appuntamenti, presentano un prodotto, lo offrono via Internet. E forniscono un servizio clienti che non può sgarrare: quel che si promette, si mantiene, si devono dare servizi, massime facilitazioni per uno spettatore che dobbiamo conquistare, non lasciare a se stesso. Finora, l'approccio col pubblico è stato passivo. Lo aspettano. E i tifosi vengono, lo so. Ma i tifosi sono tutto il pubblico? Io dico di no. Ci sono le famiglie, ci sono le aziende, si sono le business community. Ci sono milioni di persone che forse non vogliono vedere tutte le partite, ma che occasionalmente verrebbero a vedere qualche partita. Andiamole a cercare.”

In Italia il legame con la squadra è soprattutto da tifoso.
“Ed è stupendo, glielo dico io. Ero a Bologna, la sera del addio di Rigaudeau [ex capitano e giocatore storico della Virtus, andato a giocare negli Stati Uniti, ndr]. Mai visto nulla di simile in vent'anni di Nba: toccava me, stavo per piangere, sentivo un calore vero, spontaneo, tra la gente e i giocatori. Ma la Nba calcola che solo il 20-30% del pubblico è fatto di tifosi. Sono gli altri, gli occasionali, quelli su cui puntare. Non con abbonamenti stagionali, ma con pacchetti di partite, adeguando la proposta sul singolo cliente.”

Era arrivato, attraverso Rigaudeau, alla Virtus. Ecco, da dove ricomincerebbe lì?
“Da zero, come chiunque. E dai pacchetti che dicevo. Cercherei le famiglie, le aziende, chi non sa neppure cos'è il basket.”

A Bologna lo sanno tutti.
“Non credo, ma non è il punto. E pure la qualità della squadra conta, ma non è decisiva. In America ci sono club con le migliori percentuali di riempimento che non sono i primi in classifica. Poi, ovvio che la squadra buona si vende meglio.”

Questo lo sapevamo. Adesso c'è da vendere la quattordicesima in classifica.

(La Repubblica, cronaca di Bologna, 29 Maggio 2003)

Copyright 2003 Cristian Vaccari
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Ultimo Aggiornamento: 2 Giugno 2003