Sciopero generale: per scioperare davvero i giornalisti avrebbero dovuto lavorare
Lo sciopero generale del 16 aprile scorso è stato indubbiamente uno dei momenti di mobilitazione più grandi della storia recente italiana, quale che sia il giudizio politico che si voglia dare sui motivi che hanno spinto i sindacati a dichiararlo.
Ma siamo davvero sicuri che questa sia stata la percezione che se ne è avuta nell'opinione pubblica? Siamo cioè sicuri che i cittadini di destra, di centro o di sinistra si siano resi conto di quanto grande fosse la mobilitazione intorno a loro? In questi giorni mi capita spesso di sentirmi dire che in fin dei conti non si è trattato di un evento così importante e sconvolgente come si potrebbe pensare a sentire le cifre: dov'erano i 13 milioni di italiani che hanno incrociato le braccia e quelli che sono scesi in piazza? Dove si sono radunati? Cosa hanno detto i loro leader? Come mai ne sappiamo così poco?
La risposta è invero molto semplice. Non c'erano i giornalisti a raccontarlo. Salvo rare eccezioni, non c'erano troupe televisive nelle piazze da cui i leader sindacali arringavano la folla. Nei telegiornali andavano in onda scarni comunicati sindacali seguiti da riassunti molto brevi delle notizie del giorno. Si parlava dell'evento, ma non lo si raccontava. Ancora più importante, non lo si mostrava, non c'erano immagini con cui lo spettatore potesse farsi un'idea della mobilitazione raggiunta. Non c'erano microfoni che ascoltassero e registrassero il discorso di Cofferati. Anzi, c'erano, ma le loro registrazioni sarebbero state mandate in onda solo il giorno successivo, sintetizzate in pochi secondi e ri-contestualizzate dalle reazioni del governo e della maggioranza.
Nulla a che vedere con le dirette e gli speciali andati in onda in occasione della manifestazione di Roma del 23 marzo. Lì il telespettatore era messo di fronte all'enormità della folla radunata dalla CGIL, con le ovvie schermaglie sui numeri della manifestazione (700 mila partecipanti per la questura di Roma, almeno tre milioni per il sindacato). Lì il telespettatore (e il radioascoltatore, e l'internauta) hanno potuto ascoltare in diretta gran parte del discorso di Cofferati e lo hanno poi potuto riascoltare tutto il giorno nei frammenti che i vari telegiornali hanno deciso di riportare.
E la carta stampata? I giornali non sono usciti il 16 aprile, ma quel giorno i giornalisti erano regolarmente al lavoro per raccontare la manifestazione sui quotidiani in edicola il giorno successivo. Ma si sa che la stampa ormai non racconta più gli eventi, non mette il lettore di fronte agli eventi, ma ne fornisce l'interpretazione, commentandoli e approfondendoli. In questo senso chi avesse comprato un giornale il 17 aprile si sarebbe di certo imbattuto in racconti e note di colore sulla manifestazione e in disquisizioni sul suo significato politico, ma avrebbe letto di un evento a cui non aveva potuto assistere attraverso la mediazione televisiva. Se il 16 aprile avesse trovato in edicola un giornale che gli spiegasse che cosa stava per succedere, forse avrebbe potuto sentirsi più partecipe della manifestazione che si stava per svolgere nella sua città come in tutte le città d'Italia. Senza televisioni, radio e giornali, le manifestazioni del 16 aprile non hanno potuto far leva su una forma di partecipazione politica ricorrente nella società dell'informazione: la presenza simbolica attraverso i media.
Non tutti vanno in piazza, oggi più di ieri. Non tutti si trovano a proprio agio manifestando, alzando striscioni, intonando slogan o semplicemente camminando in un corteo. Da sempre i movimenti politici sono animati da minoranze attive che riescono a coinvolgere due strati della popolazione: quelli che sono teoricamente mobilitabili per azioni politiche e quelli che non modificano i propri comportamenti politici (ad esempio, partecipare a una manifestazione) ma possono variare i propri atteggiamenti politici (modificare il proprio parere su un tema, accrescere l'importanza attribuita a un problema, cambiare opinione sulle politiche di un partito, fino a modificare la propria intenzione di voto o il proprio livello di fiducia in un politico). In quest'ottica gli imprenditori politici delle democrazie del nostro secolo trovano nei media dei formidabili alleati per illustrare e convincere, per modificare cioè gli atteggiamenti, mentre ricorrono in gran parte a canali tradizionali e diretti, non mediati, per intervenire sui comportamenti di partecipazione, reclutando i manifestanti e organizzandoli capillarmente. I media sono dunque il tramite tra due gruppi, una minoranza che manifesta e una maggioranza che non manifesta, ma che può essere interessata ai contenuti della manifestazione e persuasa dai suoi argomenti.
Ma in uno sciopero generale, in cui anche i media cessano o riducono drasticamente la loro attività, questo legame viene meno. Viene ripristinato un ordine della politica che si potrebbe definire pre-mediatico, nel quale l'evento e gran parte delle informazioni fondamentali che lo riguardano non hanno un mezzo per travalicare i confini fisici in cui l'evento si verifica. Si ritorna per un giorno a una dimensione locale, in cui l'unico corteo visibile e palpabile è quello che passa sotto le nostre finestre, senza avere un idea di quanto grandi siano e che aspetto abbiano gli altri cortei. Si ritorna anche a una politica in cui chi non partecipa non ha l'alibi di potere accendere la televisione e sentirsi in qualche modo parte dell'evento, un'esperienza che è tipica degli eventi mediatici trasmessi in diretta. Non è detto che questo ritorno sia interamente negativo per una democrazia spesso circuita e ubriacata dai mezzi di informazione e dalle loro logiche. Cofferati aveva comunque organizzato una grande manifestazione il 23 marzo, un evento non concepito a uso e consumo dei media, ma comunque realizzato in modo da ottenere una grande copertura mediatica. Rimane tuttavia una sproporzione notevole tra ciò che lo sciopero generale è stato e ciò che si è impresso nella mente di molti cittadini, una differenza dovuta all'assenza dei media, dell'istituzione deputata a costruire (o ri-costruire) la realtà sociale.
È anche per questo che la maggioranza e i suoi fedeli opinionisti hanno avuto buon gioco nello sminuire lo sciopero. Dapprima si è preso un numero di per sé enorme, 13 milioni di scioperanti, e lo si è tradotto come minoranza della forza lavoro complessiva, come se fosse normale attendersi che il 100% dei lavoratori aderisse. Poi si è messa in risalto la sostanziale "normalità" della giornata del 16 aprile. Cortei come in tante altre manifestazioni, qualche ufficio chiuso, mezzi pubblici fermi, pochi negozi chiusi. Insomma, se lo sciopero ha come finalità creare confusione e disagi per sottolineare una rivendicazione politica, lo sciopero generale non sarebbe, secondo questi commenti, niente di più della somma di qualche sciopero di categoria. E dire che la parola "generale" vorrebbe anche esprimere la generalità degli interessi tutelati, oltre che l'estensione delle categorie di lavoratori che vi aderiscono.
Quest'opera di rimpicciolimento dello sciopero sarebbe stata più difficile se ci fossero state immagini puntuali, abbondanti, panoramiche dei raduni di piazza e dei cortei del 16 aprile. In questo caso si avrebbe avuto un effetto moltiplicatore di una piazza nei confronti delle altre piazze: vedere quante persone riempivano Piazza San Giovanni a Roma e Piazza della Signoria a Firenze avrebbe forse fatto sembrare più grande la folla radunata in Piazza Maggiore a Bologna, più convinti i partecipanti, più incisivi i discorsi rivolti dal palco.
Sarebbe stata meno convincente un'altra risposta del presidente Berlusconi, a suo dire supportata da sondaggi realizzati ad hoc: i manifestanti non sapevano per che cosa stavano manifestando, non hanno idea di quali siano le proposte del governo in merito all'articolo 18. La complessità e la specificità della proposta del governo non sarebbero comprese dai cittadini, strumentalizzati dai sindacati. A queste obiezioni si può senza troppo indugiare rispondere che i cittadini sono in grado di capire il significato politico di una proposta anche se non ne conoscono i dettagli. Gli elettori ragionano per analogia e sono in grado di andare oltre le informazioni a loro disposizione formulando inferenze che quasi sempre fotografano in maniera accurata le reali intenzioni e conseguenze di una manovra politica. Importa poco che il numero di lavoratori coinvolti dalle proposte del governo sia limitato: conta il valore simbolico dell'iniziativa, il suo essere parte per un tutto, antecedente di conseguenti che porteranno a ulteriori riduzioni dei diritti dei lavoratori per aumentare la flessibilità e quindi il potere contrattuale delle imprese.
Ma qui torna in gioco l'assenza dei media dalla scena dello sciopero generale. Chi ha sentito i discorsi di Cofferati, Pezzotta, Angeletti e di tutti gli altri oratori che hanno spiegato il 16 aprile le ragioni della manifestazione? Chi ha potuto leggere, sui giornali di quel giorno, articoli che spiegassero perché ci sarebbe stato uno sciopero? È ovvio che sul tema dell'articolo 18 la discussione dura da molto tempo e deve avere lasciato strascichi nella memoria di molti cittadini, ma rimane il fatto che proprio nel momento in cui si compiva lo sforzo più grande di mobilitazione il sostegno informativo all'iniziativa sia venuto a mancare.
Paradossalmente, allora, per fare uno sciopero efficace i giornalisti dovrebbero lavorare. Dovrebbero cioè continuare a svolgere quel ruolo non tanto di costruzione della realtà, quanto di tramite tra la piazza e il salotto (o la cucina, o l'auto di chi si sta recando al lavoro e ascolta la radio). Di istituzione che porta gli eventi oltre i loro confini naturali, che li amplifica, che li rende rilevanti, che detta i tempi dell'agenda politica negoziandola con il sistema politico. Da questo punto di vista un cameraman ha altrettanto peso di un cronista o di un opinionista, senza volere esagerare il potere delle immagini. Un evento può diventare evento mediatico senza commento (si pensi alle partite di calcio trasmesse senza telecronaca), ma non senza immagini, in questa era di egemonia della televisione.
Certo, un leader sindacale che chiedesse ai giornalisti di non scioperare per non bruciare la notizia dello sciopero metterebbe in seria difficoltà la percezione di imparzialità che dovrebbe essere associata alla professione giornalistica. Il giornalista che non sciopera per mandare in onda lo sciopero sarebbe allora raffigurato alla stregua delle persone che reggono uno striscione alla testa di un corteo o chiamano i cori con il megafono. Di più: i giornalisti che lavorano per testate avverse allo sciopero sarebbero probabilmente costretti a realizzare servizi che metterebbero in cattiva luce l'evento. I direttori potrebbero addirittura reagire decidendo di scioperare contro lo sciopero, di non fare andare in onda il telegiornale privando di fatto i giornalisti del loro diritto a incrociare le braccia per protesta.
Siamo qui a un nervo scoperto del ruolo del giornalista nella nostra società e anche nel nostro diritto: alfiere di un'istituzione che svolge un ruolo pubblico fondamentale, il giornalista è anche un lavoratore subordinato alle dipendenze di un'impresa, a condizioni che sono regolate da contratti di diritto privato. La sua autonomia dovrebbe essere garantita da un'etica professionale e da comportamenti convenzionali e condivisi e la lotta politica dovrebbe vederlo come testimone e non come partecipante. Eppure nel momento in cui si consuma un evento politico la presenza di un giornalista ha un peso politico nei rapporti tra attori politici e opinione pubblica con cui ci si deve confrontare.
(24 Aprile 2002)
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Ultimo Aggiornamento: 24 Aprile 2002